Vi sono vari modi di leggere la battaglia che governi nazionali e parlamento europeo stanno conducendo intorno alla nomina del nuovo presidente della Commissione europea, all’indomani del voto europeo. Il primo modo è banale: è una battaglia di interessi nazionali, ambizioni personali, filosofie politiche. L’altro modo forse lo è meno: in ballo, c’è l’immagine che si vuole dare dell’Europa, il futuro dell’Unione, tra federazione e confederazione. Il contrasto è dettato dal fatto che il Trattato di Lisbona è ambiguo. Si legge all’articolo 17: “Tenuto conto delle elezioni del Parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone al Parlamento europeo un candidato alla carica di presidente della Commissione. Tale candidato è eletto dal Parlamento europeo a maggioranza dei membri che lo compongono”. Per la prima volta, le elezioni europee hanno visto i partiti politici presentare propri candidati alla guida della Commissione. Secondo il Parlamento, il Consiglio deve rispettare la volontà degli elettori, e quindi nominare il vincitore delle elezioni, nella fattispecie il capolista popolare Jean-Claude Juncker. Secondo molti governi, la scelta spetta in ultima analisi al Consiglio. Non c’è governante probabilmente che oscilli personalmente tra le due opzioni. Da un lato, molti di loro sanno che nominare Juncker, 59 anni, sarebbe un atto di trasparenza e di rispetto della volontà popolare. “Molti leader sanno in cuor loro che ignorare questa indicazione significa rischiare un tasso di assenteismo ancora più elevato alle prossime elezioni”, commenta un alto diplomatico europeo. Dall’altro, molti governanti hanno anche la tentazione di rispondere al crescente euroscetticismo mettendosi sullo stesso piano dei movimenti più radicali, rassicurando il loro elettorato sul peso specifico del loro paese nel processo decisionale europeo e quindi attribuendo la nomina del presidente della Commissione esclusivamente ai governi nazionali.Il dubbio di questi governanti è lecito, tanto più che i due metodi hanno politicamente significati molto diversi tra loro. Affidare per la prima volta la nomina del presidente della Commissione al voto popolare significherebbe in un certo senso sostenere presso l’opinione pubblica che il percorso dell’Unione prevede in ultima analisi una federazione. Viceversa, assicurare la nomina del successore di José Manuel Barroso nelle mani del Consiglio significherebbe confermare che l’Unione è e rimarrà almeno nel futuro prevedibile una confederazione di stati sovrani. Posta in questi termini, si capisce di più il nervosismo di questi giorni, e le ragioni per cui la scelta delle forze politiche di fare campagna con propri candidati sia stata vissuta con fastidio da molti governi. C’è di più. Si capisce perché la Gran Bretagna di David Cameron sia così contraria all’arrivo di Juncker alla testa della Commissione. Al di là di eventuali antipatie personali o dubbi politici, la nomina dell’ex premier lussemburghese, che ha fatto campagna elettorale in autobus girando per i 28 paesi dell’Unione, lancerebbe un messaggio di federalizzazione della vita politica europea che il premier inglese non può permettersi dopo il successo dello UK Independence Party (e la sconfitta del Partito conservatore) alle ultime elezioni europee. La scelta del futuro presidente della Commissione è resa particolarmente difficile non solo dal clima politico in molti paesi, ma anche dalla posizione inglese. Scegliere il metodo federale significherebbe nei fatti isolare la Gran Bretagna (e possibilmente altri paesi) e forse indurla a lasciare l’Unione.
(Nella foto, Jean-Claude Juncker, 59 anni, il capolista del partito popolare europeo arrivato in testa alle ultime elezioni)
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