BRUXELLES – Alexis de Tocqueville era convinto che «un'idea falsa ma chiara e precisa avrà sempre più successo nel mondo di una idea vera ma complessa». È un po' quanto sta accadendo nel confronto tra crescita e austerità che sta attanagliando la classe politica europea, dominando le pagine dei giornali, e avvelenando il rapporto tra i Paesi della zona euro. La soluzione alla diatriba sta in un equilibrio difficile da raggiungere, e soprattutto da spiegare. I protagonisti affrontano la questione con ottiche diverse, segnati dalla loro esperienza storica, dalla loro cultura economica e anche, naturalmente, dai loro interessi nazionali.
Al di là dell'Oceano Atlantico, il Fondo monetario sta spingendo perché l'Europa riveda il ritmo del risanamento delle finanze pubbliche. Ancora questa settimana a Londra il vice direttore generale dell'Fmi David Lipton ha esortato gli europei a far sì che le loro politiche di bilancio siano «favorevoli alla crescita». Il direttore generale Christine Lagarde ha sottolineato l'importanza di «vegliare al tessuto della società». L'organizzazione internazionale non manca occasione di chiedere alla Banca centrale europea di ridurre ulteriormente il costo del denaro, sebbene il tasso di riferimento sia già allo 0,75%.
Per molti versi, il percorso intellettuale dell'Fmi è impregnato di cultura economica americana, di cui oggi il portavoce più ascoltato è Paul Krugman. Negli anni, il principio anglosassone per cui l'indebitamento non è (solo) cattivo è sopravvissuto. Negli Stati Uniti le soup lines degli anni 30 hanno lasciato il segno, e la lezione tratta dalla Grande Depressione è che l'austerità rischia di mettere a repentaglio gli equilibri della società e il rilancio dell'economia. Nell'ottica americana, l'indebitamento è anche una scommessa sul futuro, l'utile ingrediente del cittadino imprenditore di se stesso.
Di altro avviso è invece la Germania. Mentre a Washington il debito è il corollario dello spirito di iniziativa, a Berlino è sinonimo di imprudenza. Nell'opera teatrale Ascesa e salita della città di Mahagonny, Bertolt Brecht racconta con sprezzo di una città, New York, nella quale il denaro compra tutto. Tradizionalmente si fa risalire questa dottrina alla paura dell'iperinflazione degli anni 20, anche se in realtà il cammino tedesco è radicato in una cultura che vive con angoscia l'incertezza della vita, e che tenta di prevedere il futuro, fosse solo perché a differenza di un presente per natura sfuggente, l'avvenire è modellabile.
Certo, la Germania incita i propri partner al risanamento dei conti pubblici per paura che a un certo punto debba pagare i debiti di altri, ma è anche convinta che indebitarsi per crescere sia pericoloso. La stabilità dei prezzi non è forse un ingrediente indispensabile per qualsiasi decisione economica, dall'acquisto di una casa al finanziamento degli studi di un figlio? A Berlino, si ama ricordare tra le altre cose che i conti pubblici in Svezia sono passati da un deficit del 10% del prodotto interno lordo nel 1993 a un attivo di bilancio del 5% nel 2000, e che oggi il Paese scandinavo è tra i più sani dell'Unione.
Sul fronte opposto è la Francia, che pur senza allinearsi agli Stati Uniti, è convinta che l'indebitamento può essere uno strumento di politica economica, nella tradizione di Colbert e di Fouquet. Più in generale, lo sconquasso prima finanziario e poi economico ha accentuato le divergenze tra Germania e Francia: si confrontano sul primato della morale e il dominio della politica; sulla cultura della stabilità e la gestione della crisi; sul ruolo dello Stato e la preminenza del diritto; su federalismo e centralismo; sulla ricerca del compromesso e la passione per la polemica.
Nello stesso modo in cui alla Germania si associano l'Olanda e la Finlandia, nel dibattito europeo la Francia può contare in questo frangente sull'appoggio di altri Paesi europei, a iniziare dall'Italia e dalla Spagna. Mentre Berlino e Helsinki sono proiettate sulle sfide del futuro, Parigi ma soprattutto Roma sono concentrate sui dolori (e i piaceri) del presente. Il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble è convinto che il desiderio di allentare il risanamento in Italia nasconda l'ultimo tentativo di consentire la disperata sopravvivenza di un sistema economico fondato sui familismi.
In fondo, spetta a un altro protagonista di questa discussione quadrare il cerchio. Consapevole che finché nella zona euro i mercati potranno mettere a confronto i bilanci nazionali abbandonare il risanamento è rischioso e illusorio, la Commissione deve trovare un giusto equilibrio tra le paure tedesche e le pressioni francesi, tra i motivi dell'austerità e le ragioni della crescita. Il commissario agli Affari monetari Olli Rehn deve fare quanto il dibattito di questi giorni elude drammaticamente: «Capire è un po' giustificare» diceva Primo Levi. B.R.