La sofferta decisione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea di negoziare un accordo di libero scambio è il risultato di una serie di fattori; prima di tutta dello stallo nel quale si trovano i negoziati multilaterali del Doha Round. Accordi bilaterali sono diventati indispensabili per chi crede a una liberalizzazione degli scambi commerciali. Ma dietro all’annuncio di ieri c’è anche la presa di coscienza delle crescenti difficoltà economiche dei due blocchi commerciali – insieme un mercato di 800 milioni di persone – dinanzi ai paesi emergenti. Mentre nei prossimi anni l’America sarà chiamata a ridurre il proprio enorme debito pubblico, l’Europa dovrà fare i conti con un invecchiamento della popolazione che pesa sulla domanda interna. Entro il 2015, il 90% del commercio avverrà fuori dalle frontiere dell’Unione. I due alleati devono aprire i rispettivi mercati per offrire nuovi sbocchi alle proprie imprese. Nel contempo, vogliono adattarsi a una catena produttiva che è cambiata molto in questi anni. Un bene non è più prodotto in un solo stabilimento o in un solo luogo; è piuttosto il risultato di una panoplia di risorse, materiali e intellettuali.
Tra il 1995 e il 2008, il
giro d’affari generato dalla partecipazione delle imprese europee alla catena
produttiva globale nel settore manifatturiero è aumentato da 2,0 mila miliardi
a 2,5 mila miliardi di dollari, secondo una recente ricerca a cui hanno
contribuito il Vienna Institute for International Economic Studies e l'Università di Groningen. Lo stesso
iPhone, ideato in California e costruito nel Guangdong, ha componenti europei
per il 12-16%. Il commercio è assai più parcelizzato di prima. In questo senso,
una progressiva liberalizzazione comporta crescenti benefici. Nei fatti, il tentativo dei
due blocchi commerciali, memori del paralllelo con la crisi del 1929, è di
evitare la deleteria tendenza protezionistica degli anni 30. Ciò non vuol dire però che
la partita negoziale sarà priva di ostacoli e difficoltà. I dazi doganali sui
due lati dell’Atlantico sono relativamente bassi, ma vi sono sul versante
americano settori protetti, come l’abbigliamento o il trasporto marittimo. Alla
fine dell’ultimo decennio, Washington ha anche adottato limiti alla
partecipazione delle società straniere negli appalti pubblici.
Sul fronte europeo, i temi
più controversi riguarderanno gli organismi geneticamente modificati o
l’agricoltura. Nei due blocchi commerciali non mancano poi dubbi politici sulla
liberalizzazione del commercio. In Europa, in particolare, la Commissione è
criticata per avere scelto una politica commerciale troppo liberale. La Gran Bretagna e la Germania sostengono l'esecutivo comunitario; la Francia è più fredda, e nei confronti degli Stati Uniti è preoccupata per tutti quei sussidi che utilizza per difendere l'eccezione culturale francese. Non è un
caso se l’esecutivo comunitario ricorda quando possibile che l’Unione è il
principale partner commerciale di 80 paesi; che 25 milioni di posti di lavoro in Europa dipendono dall’export; e che il
settore manifatturiero – nonostante le chiusure di impianti nell’acciaio e
nell’auto – ha un surplus commerciale di quasi 300 miliardi di euro.
(Nella foto, il presidente americano Barack Obama mentre davanti al Congresso annuncia l'avvio dei negoziati tra Europa e Stati Uniti il 12 febbraio a Washington)
NB: Dal fronte di Bruxelles (ex GermaniE) è anche su Facebook