Viviamo un periodo storico nel quale, in Europa, l’Italia chiede. Chiede flessibilità di bilancio. Chiede comprensione sul fronte bancario. Chiede particolari misure di difesa commerciale. Chiede sostegno per meglio affrontare l’arrivo di migranti sulle sue coste meridionali. I dossiers aperti sono tanti, e la diplomazia italiana è impegnata su molti fronti. Ogni volta le regole esistenti sono criticate. Il tentativo è quello di rivederle, correggerle; magari aggirarle. Con ragione? In parte sì. Le norme di bilancio sono potenzialmente deflazionistiche. La retroattività delle regole sul bail-in – vale a dire la partecipazione di azionisti e obbligazionisti al salvataggio bancario – è discutibile. Il rischio di subire l’aggressivo dumping cinese è elevato per una economia poco innovativa. Il ricollocamento d’autorità dei rifugiati arrivati nell’Europa del Sud non funziona, e il paese è oggettivamente in difficoltà nel gestire l’arrivo massiccio di migranti. Ciò detto, ancora una volta l’impressione è che il paese non riesca a convivere con le regole che l’Europa si è data, con il consenso italiano.
Ogni volta, c’è il sospetto che la richiesta italiana nasconda il tentativo di salvaguardare l’assetto familistico della società nazionale, di cui il debito pubblico è l’enorme volano e le banche sono l’indispensabile carburante; o di proteggere le corporazioni economiche, quando si tratta di protezionismo commerciale. Anche sull’annosa questione dell’immigrazione, l’Italia appare in difetto. Non c’è dubbio che il paese stia affrontando una emergenza fuori dal comune, ma è stato lento ad applicare le regole sull’identificazione dei migranti e può facilmente essere rimproverato di non controllare a sufficienza fette importanti del suo territorio, consentendo ai migranti di fuggire verso Nord, approfittando della libertà di movimento nello Spazio Schengen. Anche l’Italia ha qualche responsabilità se il ricollocamento stenta a decollare.
In fondo, i tanti dossiers aperti sembrano rivelare da un lato l’incapacità del paese a rispettare le regole comunitarie e nel contempo la sua difficoltà a modernizzarsi dinanzi a una aggressiva concorrenza europea e internazionale. Non è un caso se in fin dei conti la crisi di Veneto Banca e della Banca popolare di Vicenza sia stata risolta dopo molti tira-e-molla attraverso la legislazione nazionale più accomodante, e non quella comunitaria più restrittiva. C’è anche il tentativo dell’establishment italiano di usare la paura che suscitano a Bruxelles, Berlino o Parigi i partiti anti-sistema (come il Movimento Cinque Stelle o la Lega Nord) per raggiungere (con un malcelato ricatto?) i suoi obiettivi.
Non c’è altro paese così in difficoltà nel convivere con le regole europee, al di là della Grecia che per molti versi è un caso a sé. Il Portogallo è riuscito a mettere mano ai suoi problemi di bilancio. La Spagna è stata brava nel rimettere in sesto il suo sistema bancario. Neppure la protezionista Francia rumoreggia quanto l’Italia contro la Cina. Le varie richieste italiane riflettono le particolari difficoltà del paese, oltre che un certo vittimismo nazionale. In questo contesto, la scelta di Paolo Gentiloni di non partecipare alla cerimonia che il Parlamento europeo ha organizzato sabato 1° luglio in onore dell’ex cancelliere tedesco Helmut Kohl è stata curiosa. Il premier ha lasciato la scena a Silvio Berlusconi, Romano Prodi e Angelino Alfano. Impegno improrogabile? Improvvisa pigrizia? O il timore di essere attaccato dentro e fuori la sua maggioranza per un atto di fede europeista a un vecchio democristiano? Poco importa. Sarebbe stata l’occasione per marcare il territorio e dimostrare alla tanto criticata Germania e agli altri partner europei che l’Italia è capace di mettere da parte incomprensioni e difficoltà, per guardare alto e rendere omaggio a uno storico uomo di Stato.
(Nella foto, il funerale di Helmut Kohl sabato 1 luglio nella cattedrale di Spira)
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