La politica economica dell’Italia alla prova della Commissione Ue (e della Presidenza Macron)

Le due prossime settimane saranno importanti nel rapporto dell’Italia con le autorità comunitarie. La Commissione europea pubblicherà nuove stime economiche e poi successivamente analisi aggiornate sull’andamento del debito pubblico e degli squilibri macroeconomici eccessivi di cui è oggetto il paese. Su entrambi i fronti l’Italia è a rischio di sanzione. A metà mese capiremo meglio come sono valutate le promesse di risanamento e di riforme in vista del 2018. Le ultime informazioni raccolte qui a Bruxelles fanno pensare che la Commissione europea non calcherà la mano, prendendo atto dei minimi sforzi che il governo Gentiloni è riuscito a fare negli scorsi mesi, nonostante la fronda contraria nella sua stessa maggioranza. renzipd_assemblea-675x350L’esecutivo comunitario si è già detto soddisfatto “a un primo sguardo” della manovra dello 0,2% del prodotto interno lordo per rimettere in careggiata i conti pubblici del 2017. Ciò detto, la vera incognita del pacchetto di decisioni previste a metà mese è relativo all’andamento degli investimenti pubblici nel corso del 2016. Per tutto il 2015 l’allora premier Matteo Renzi (presidente del consiglio dal febbraio 2014 al dicembre 2016) aveva fatto campagna per ottenere maggiori margini di spesa.

Tacciando i rappresentanti dell’establishment comunitario di “burocrati” ossessionati dagli “zero virgola”, l’uomo politico si era speso in Italia e in Europa per chiedere una nuova nuova interpretazione più lasca del Patto di Stabilità e di Crescita, indispensabile ai suoi occhi per aiutare l’economia contro “l’austerità”. Finalmente, nel gennaio del 2015, la Commissione europea fece proprie le richieste italiane e pubblicò nuove linee-guida. Tra queste fu inserita la possibilità di ottenere flessibilità di bilancio in cambio di un rilancio degli investimenti pubblici. L’Italia fu beneficiaria diretta di questa formula, ottenendo per il 2016 una flessibilità di bilancio pari allo 0,25% del PIL in cambio di un rilancio della spesa in conto capitale. Purtroppo, le cose sono andate diversamente. La flessibilità fu concessa, ma gli investimenti mancarono all’appello. Le ultime cifre pubblicate dall’ISTAT in aprile mostrano che anziché aumentare o rimanere stabili questi nel corso dell’anno scorso sono scesi, del 4,4% rispetto al 2015. Il ministero dell’Economia è corso ai ripari e ha inviato a Bruxelles una lunga spiegazione tecnica per spiegare l’accaduto.

Anche su questo fronte, l’Italia è a rischio di sanzione, ma è plausibile immaginare che la Commissione europea chiuda un occhio. Poco importa. Il danno di immagine è stato fatto. È un danno all’immagine di Matteo Renzi, e in parte anche dell’Italia, che ancora una volta ha dimostrato di essere un partner politico inaffidabile. Chi ha partecipato ai negoziati diplomatici negli anni 90 per l’ingresso del paese nella zona euro non ha dimenticato le tante promesse di riduzione del debito pubblico. Allora oscillava intorno al 110% del PIL; oggi supera il 130% del PIL. La crisi finanziaria ed economica è una giustificazione banale e convincente fino a un certo punto. In molti paesi il debito è salito, ma in molti è anche sceso, come in Belgio (dal 114% del PIL nel 1999 al 106% nel 2016). Il mancato rilancio degli investimenti pubblici nel 2016 a fronte di nuovi margini di spesa non sarà dimenticato facilmente a Bruxelles, e soprattutto a Berlino. Ci sarebbe più comprensione se la clausola di flessibilità non fosse stata chiesta con così tanta veemenza nazionale e presunzione personale proprio dall’Italia e dall’allora suo premier. Se la flessibilità di bilancio fosse stata usata almeno per ridurre l’indebitamento, i partner avrebbero potuto salutare la scelta con soddisfazione. Invece il denaro è andato in altro uso, e il debito è salito ulteriormente l’anno scorso, secondo i dati del Ministero dell’Economia, al 132,6%, dal 132,1% del PIL nel 2015.

Come detto, l’Italia riuscirà probabilmente ad evitare sanzioni a metà mese. La partita tuttavia è solo rinviata a fine anno quando il governo italiano dovrà presentare una nuova Finanziaria. Dopo un risanamento ai minimi termini negli anni scorsi, il ministero dell’Economia ha messo nero su bianco una riduzione del deficit strutturale dello 0,9% del PIL. Realistico? Qui a Bruxelles molti ne dubitano. L’Italia preoccupa. Ancora recentemente un alto responsabile europeo mi spiegava che il paese “is too big to fail”. Sottolineava come in 20 anni di moneta unica il paese sia rimasto nei fatti immobile: soffre sempre di bassa competitività, alto debito, banche fragili, disoccupazione elevata, burocrazia bizantina, clientelismo imperante. Cosa succederà ora che la Francia è governata da un presidente, Emmanuel Macron, che ha promesso una modernizzazione della sua economia? Roma non potrà più nascondersi dietro a Parigi per evitare riforme dolorose e sarà terribilmente isolata rispetto al motore franco-tedesco. Cosa succederà poi quando la Banca centrale europea interromperà il programma di allentamento quantitativo e di acquisti di titoli obbligazionari (italiani) sul mercato? Negli ambienti comunitari si sospetta che i governi italiani di grande coalizione degli ultimi anni abbiano di fatto ricattato i partner, ricordando quotidianamente il rischio dell’arrivo al potere di forze radicali ed euroscettiche. La carta del ricatto potrebbe essere ormai unta e bisunta. Dinanzi al pericoloso immobilismo dell’economia italiana, come non pensare che possa emergere il sentimento qui a Bruxelles che assecondare i governi di grande coalizione sia ormai rischioso per il futuro stesso dell’unione monetaria e che forse dare la parola ai partiti più radicali possa essere uno scossone salutare?

(Nella foto, l’ex premier Matteo Renzi, 42 anni, durante la campagna elettorale per l’elezione a segretario del Partito Democratico)

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