Banche italiane – Quando l’EBA tirava l’allarme sulle obbligazioni creditizie

La vicenda delle quattro banche italiane che sono state ristrutturate e salvate alla fine di novembre merita che si faccia chiarezza su alcuni aspetti: Perché gli aiuti di Stato sono vietati? Perché gli obbligazionisti sono chiamati a subire perdite nel caso di una ristrutturazione bancaria? Perché il governo italiano ha deciso di salvare Banca delle Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti, commissariate nel corso dell’ultimo biennio, alla fine di quest’anno e non all’inizio del prossimo? E infine, come spiegare che in questi anni le banche in vari paesi, non solo in Italia, abbiano più che in passato emesso proprie azioni e obbligazioni? 120459676-d31abd15-bd93-4001-9199-eac276dcfbb2In un primo tempo, il governo avrebbe voluto salvare le banche utilizzando il denaro pubblico, vale a dire i soldi dei contribuenti. Non ha potuto farlo; e non per banali motivi politici o per qualche sfizio bruxellese. Fin dalla nascita della comunità europea, fu deciso che l’intervento pubblico nell’economia dovesse essere limitato e regolato, pur di garantire eque condizioni in tutto il mercato unico (il level playing field, in inglese). Il principio dovrebbe essere visto come una garanzia per i paesi più indebitati, l’Italia in primis, nei confronti dei vicini più ricchi. Oggi paradossalmente è ritenuto una ingiustizia. C’è chi ha ricordato – risentito – che il governo tedesco tra il 2008 e il 2013 ha potuto salvare generosamente le sue banche. E’ vero. Secondo i dati della Commissione europea, dopo il crollo dei mercati finanziari nel 2007, la Repubblica Federale versò negli istituti di credito in crisi 197 miliardi di euro sotto forma di ricapitalizzazioni e 465 miliardi di euro sotto forma di garanzie. Ai tempi, però, Bruxelles aveva deciso di sospendere temporaneamente le regole che vietano aiuti di Stato. Non solo per la Germania, ma per tutti i paesi europei. Il drammatico fallimento di Lehman Brothers, e lo scossone che quest’ultimo dette ai mercati e all’economia (il 2009 fu l’anno della grande recessione), avevano indotto la Commissione europea ad allentare le norme. Superata l’emergenza, fin dal 2013, Bruxelles avvertì i paesi membri che il ritorno alle regole tradizionali sarebbe avvenuto a metà del 2014. Così è stato. Al salvataggio delle quattro banche italiane sono state quindi applicate le normali norme europee. La Commissione europea non ha fatto altro che seguire il manuale comunitario, approvato dai Ventotto, e utilizzato in fattispecie simili, anzi molto più gravi, in Spagna e in Olanda.  A questo punto dobbiamo capire perché le regole europee prevedono che in caso di fallimento o di salvataggio, non solo lo Stato non possa intervenire, ma azionisti e obbligazionisti debbano pagare il conto, almeno in parte. Semplicemente perché l’esperienza degli ultimi anni ha indotto la classe politica europea a ridurre il rischio per la mano pubblica. I salvataggi bancari tra il 2008 e il 2013 sono stati indispensabili per stabilizzare l’economia, ma si sono rivelati estremamente costosi (671 miliardi di euro in capitale e prestiti, a cui si devono aggiungere 1.288 miliardi di euro in garanzie, secondo la stessa Commissione europea). Molti governi sono stati costretti a indebitarsi spaventosamente. Il pendolo della regolamentazione comunitaria e internazionale è oscillato nervosamente, fino a considerare legittimo imporre agli investitori una parte sostanziosa delle perdite. Non è un caso se il governo italiano abbia deciso di salvare i quattro istituti di credito alla fine del 2015, e non all’inizio del 2016. Quest’anno vigono ancora regole secondo le quali al salvataggio partecipano azionisti e obbligazionisti subordinati. Dall’anno prossimo, le norme europee prevedono anche l’impegno degli obbligazionisti privilegiati. C’è chi si chiede se sia giusto che anche gli obbligazionisti, non solo gli azionisti, debbano sostenere i costi di una malagestione. Rovesciamo per un attimo la prospettiva e chiediamoci se sia giusto che la mano pubblica, vale a dire il contribuente, impegni il proprio denaro nel salvataggio di una banca mentre gli investitori continuano a incassare cedole, come se niente fosse. Infine, il caso di Banca delle Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara e Cassa di Risparmio della Provincia di Chieti ha evidenziato un ultimo aspetto, non dei meno importanti. Alla ricerca di denaro fresco per rafforzare il loro patrimonio e compensare eventuali perdite, molti istituti di credito, in Italia e all’estero, hanno avuto la tendenza in questi ultimi anni ad emettere e a vendere proprie azioni e proprie obbligazioni. Fin dal luglio 2014, le tre autorità europee di vigilanza – EBA, ESMA ed EIOPA – hanno avvertito le banche e le autorità nazionali dei pericoli di una crescita eccessiva di questo fenomeno: “La presenza crescente di prodotti chiamati a subire perdite secondo le norme europee significa che i consumatori sono esposti a rischi significativi che non esistono per altri prodotti finanziari”. Evidentemente l’avvertimento è stato preso sotto gamba.

(Nella foto, un risparmiatore della Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio che protesta contro l’operazione di salvataggio dell’istituto di credito decisa dal governo)

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  • Hermann Bollinger |

    Una leggera precisazione: non è proprio vero, come asserito nell’articolo, che siamo tornati alle regole tradizionali – nel 2008 il bail-in non c’era. L’abitudine delle banche a vendere obbligazioni subordinate sulla propria rete dipende proprio dal fatto che questi prodotti sono diventati più rischiosi (come abbiamo avuto modo di capire) e sul mercato istituzionale pagherebbero quindi delle cedole molto alte, visto che le nostre banche sono decotte ed inefficienti.
    E’ giusto che le banche paghino delle cedole altissime? Certo che lo è, si chiama libero mercato. Solo che se le banche fossero costrette a finanziarsi con queste cedole, dovrebbero licenziare decine di migliaia di dipendenti in più, di quelli che già stanno licenziando. Le banche in questo momento sono oberate di costi collegati alla marea di crediti non performing – costi che non sono comprimibili. Per ridurre i costi allora l’unica leva è ridurre quelli del personale. Non c’è altro modo, anche se scommetto che i sindacati non saranno d’accordo. A prima vista hanno ragione: perché gli errori di gestione devono essere ‘pagati’ dai dipendenti, mentre il vero responsabile è la classe dirigente del sistema bancario (manager di bassissima qualità)? Beh, non è proprio così, soprattutto perché il grosso dei non performing loans lo hanno accumulato le popolari o altre banche medio-piccole, banche dove i sindacati sono stati complici al 100% del sistema. Hanno preferito girarsi dall’altra parte e stare zitti sulla mala gestione, ottenendo in cambio un ruolo e un’importanza centrali, attraverso una tutela dei lavoratori che rasenta il privilegio. Questo oggi è insostenibile: banche zeppe di crediti inesigibili (soldi prestati dai manager agli amici degli amici, quando va bene – vedi recenti scandali che hanno lambito addirittura Unicredit) e strutture del personale elefantiache (per tenere buoni i sindacati). Unico problema: oggi grazie alle nuove regole, non c’è più Pantalone a pagare. Mi domando cosa ne pensino i vari Becchetti e Masaciandaro, improbabili sostenitori del credito popolare, lo stesso che ha prodotto questi obbrobri.

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