Quando il Congo era come il Brasile – 09/12/12

Non c'è Paese in Europa che per storia e tradizione non sia una finestra sul mondo. Da Londra, si può capire il futuro dell'India. La Germania offre uno sguardo sulla Turchia, la Francia sul Maghreb, l'Olanda sull'Indonesia. L'Italia invece è un palcoscenico per comprendere i Balcani. Anche il Belgio, è un punto di osservazione per seguire sul grande radar mondiale gli alti e bassi dell'Africa nera – in particolare del Congo, ancora oggi sotto i riflettori dell'attualità a causa dei primi focolai di una nuova guerra civile – e capire prima di altri le prospettive di un continente finora lasciato ai margini della globalizzazione.


A Tervuren, nella periferia di Bruxelles, il vecchio
Museo dell'Africa centrale continua ad accogliere migliaia di
visitatori ogni anno. L'edificio neoclassico voluto da Leopoldo II ai
primi del Novecento non ospita solo una straordinaria collezione di
oggetti d'arte africana. Riflette anche l'incredibile storia del
colonialismo belga in Congo tra il 1885 e il 1960. Ancora oggi, le
grandi università belghe – dalla cattolica Lovanio alla libera Bruxelles
– coltivano con particolare cura gli studi africani. Su tutt'altro
registro, Brussels Airlines afferma di essere la prima compagnia aerea
europea per numero di collegamenti con il continente nero.
I legami
del Belgio con l'Africa sono evidenti. Eppure, anche in questo paese
l'enorme successo editoriale di un libro di 700 pagine sulla storia
millenaria del Congo ha colto di sorpresa. Il volume è stato venduto
nella sola versione in olandese a oltre 250mila copie. L'autore, David
Van Reybrouck, è uno scrittore fiammingo che ambisce ad essere storico,
poeta, viaggiatore, romanziere. Le sue passioni si riflettono in un
libro che raccoglie oltre 500 interviste, è il frutto di sei anni di
lavoro, e mescola i generi in un audace esempio di non-fiction
literature, appena pubblicato in francese da Actes Sud con il titolo
Congo – Une histoire.
D'altro canto, poche esperienze coloniali hanno
suscitato l'interesse del giornalismo e della letteratura come quella
belga. Da subito, o quasi, è stata una cause célèbre internazionale. Nel
1899 Joseph Conrad pubblica The Heart of Darkness, in cui racconta
l'ambiente inumano della giungla equatoriale e della razzia dell'avorio.
Trent'anni dopo, André Gide si interroga sui crimini della gestione
coloniale belga in Voyage au Congo. Più recentemente, nel 1998, Adam
Hochschild scrive King Leopold's Ghost, stimando tra le altre cose che
la raccolta di caucciù tra fine Ottocento e inizio Novecento fece dieci
milioni di vittime.
«Non c'è dubbio che il colonialismo belga sia
stato segnato da una forma di paternalismo assente in altre esperienze
simili», racconta Van Reybrouck, 41 anni, seduto in una piccola
brasserie nel quartiere di Saint Gilles a Bruxelles. «L'emancipazione
della colonia è stata lenta. Da un lato, c'era il desiderio di evitare
la nascita di una élite che avrebbe preso le distanze dal resto della
popolazione. Dall'altro, c'era la preoccupazione di controllare le masse
non istruite, non fosse altro per le colossali differenze geografiche
tra la madrepatria e la colonia. I belgi hanno creato solo gradualmente
un sistema scolastico». Le scuole elementari sono nate negli anni 1880,
quelle secondarie negli anni 1930, la prima università nel 1954.
Per
vent'anni il Congo è addirittura proprietà personale di Leopoldo II che
se ne appropria nel 1885 alla Conferenza di Berlino. Solo nel 1908
l'immenso territorio africano – grande settantacinque volte la
madrepatria – diventa colonia. Ricchissimo di risorse naturali, il Congo
contribuisce all'industrializzazione del piccolo regno. Pochi in Belgio
negherebbero oggi le malefatte del regime coloniale, anche se
curiosamente è sopravvissuta una rue des colonies nel centro di
Bruxelles, a due passi dalla Cattedrale di San Michele e Santa Gudula e
dal parlamento federale (per certi versi, un apprezzabile sgarbo al
politicamente corretto).
Nello stesso modo in cui molti un secolo fa
si interrogavano sulle cause di una criticata gestione coloniale, oggi
molti si chiedono se le ricorrenti crisi attraversate dal Congo abbiano
sempre radici belghe. «E' probabile che in parte l'esperienza coloniale
giochi nel ritardo congolose – risponde l'autore di Congo –. E' vero che
al momento dell'indipendenza i laureati erano appena 16. Non essendoci
stata quasi immigrazione dal Belgio, la funzione pubblica è stata
gestita da locali, salvo per gli alti funzionari tutti belgi, ma
presenti sul posto solo temporaneamente. Da allora però sono passati
decenni e le colpe del ritardo del paese sono ormai soprattutto
congolesi».
Il Congo è stato anche vittima della storia di una
potenza coloniale che più di altri paesi europei è stata scombussolata
dalla rivoluzione industriale. Il forte arricchimento di una borghesia
laboriosa e il rapido emergere di un proletariato combattivo hanno
travolto gli equilibri precedenti, fondati sulla monarchia,
l'aristocrazia e la Chiesa. Leopoldo II era convinto che le tensioni
sociali e politiche in patria dovessero trovare uno sbocco in un grande
progetto di unità nazionale. Il Congo non lo divenne mai: interessò una
parte dell'establishment belga, ma fu praticamente ignorato dalla classe
media.
Agli occhi di Van Reybrouck, il paese africano è uno
sfortunato protagonista dei diversi tentativi di mondializzazione, fin
dal XVI secolo quando era dominato dai portoghesi e la capitale Mbanza
aveva più abitanti di Londra. Per certi versi il Congo è il Brasile
dell'Africa, in termini di estensione geografica e di ricchezze
naturali; ma mentre il Brasile sembra sulla buona strada per dare
ragione a Stefan Zweig ed essere «il paese del futuro», il Congo è
drammaticamente in ritardo. Nota però Van Reybrouck «da parte dei
giovani il desiderio di assumersi le proprie responsabilità e chiudere
con il vittimismo degli ultimi decenni».
A 50 anni dall'indipendenza,
il Belgio non ha quasi più interessi economici nella ex colonia, ma
vuole essere, grazie ai suoi contatti bilaterali, il legame tra il paese
africano e il resto del mondo. «Nelson Mandela in Sud Africa ha dovuto
trasformare uno stato ingiusto in uno stato giusto – conclude Van
Reybrouck –. Oggi il presidente congolese Joseph Kabila deve creare uno
stato. Per ora, il Congo è come un anziano che passeggia nel Bronx in
piena notte, le tasche strapiene di denaro: è saccheggiato. Sono
ottimista a lungo termine, pessimista a breve termine. Sui mille
chilometri che lo separano dal Brasile, per ora il paese ne ha percorsi
uno e mezzo». B.R.