1956: Come la tragedia di Marcinelle ha cambiato la cultura belga

LETTERA DA LA LOUVIÈRE

La miniera di carbone di Bois-du-Luc, una delle più antiche del Belgio, è ormai chiusa dal 1973. Ma la città operaia, situata tra Mons e Charleroi, continua a suscitare innegabili emozioni. Costruito tra il 1838 e il 1853, il sito è rimasto inalterato. Il pozzo è chiuso. I minatori mancano ormai da quarant’anni. Eppure sembra quasi che la fabbrica, la chiesa, la scuola, e soprattutto le abitazioni a schiera in pietre scure siano disabitate per il fine settimana; e che lunedì l’intera città tornerà a girare, i macchinari a sbuffare, gli operai ad armeggiare, come ai vecchi tempi.
A pochi chilometri di distanza, sulle sponde del Canal du Centre nei pressi di La Louvière, le vecchie abitazioni di minatori costruite dall’impresa Gustave Boël sono oggi un ristorante, La cantine des Italiens. Paradossalmente, la località è più simbolica dei vecchi pozzi di carbone di Bois-du-Luc riflette meglio l’eredità italiana in questo paese. Ancora oggi, il luogo è quello prescelto dalla comunità immigrata in questa zona del Borinage per le grandi riunioni di famiglia, tra canti, balli e lunghe tavolate festose a cui spesso si associa la popolazione locale.
«Non so se l’integrazione degli italiani sia stata pienamente un successo – nota Christian Druitte, un ex amministratore della RTBF, la rete televisiva pubblica francofona -. Certo, l’ex primo ministro Elio Di Rupo ha dimostrato che in questo paese tutti possono fare fortuna. Mi sembra, tuttavia, che in generale l’impatto italiano in Belgio sia avvenuto in campo culturale. Non c’è collettività immigrata che abbia influenzato così tanto la cultura popolare». Nel 1976, per ricordare il ventennale della tragedia di Marcinelle, nella quale morirono 262 persone fra cui 136 minatori italiani, Druitte presentò in prima serata una diretta di cinque ore.
Le doppie celebrazioni di quest’anno – oltre al drammatico incidente di Marcinelle, il Belgio ricorda anche il settantesimo anniversario dell’accordo italo-belga del 1946 con il quale i due paesi organizzarono uno scambio carbone contro manodopera – sono l’occasione per una rivisitazione del passato e un esame del presente, a cui contribuisce un ricco programma di incontri, film, convegni e conferenze organizzato dall’Ambasciata d’Italia, dall’Istituto italiano di cultura a Bruxelles e dalla Cineteca reale del Belgio, la Cinematek, presieduta dall’italiano Nicola Mazzanti.
A seconda del paese, l’immigrazione italiana nel Nord Europa ha lasciato impronte diverse. Il principio dell’assimilazione fa sì che la Francia faccia storia a sé: pochi si ricordano che Edith Piaff, Pierre Cardin o Yves Montand erano italiani. In altri paesi, le cose sono andate diversamente. Mentre in Germania l’impatto ha colpito la cucina, e in parte la moda, in Belgio l’immigrazione italiana ha segnato la cultura popolare. Dolorès Oscari è direttrice del Théâtre Poème, a Bruxelles. Istriana di origine, e con passaporto italiano, la sua famiglia è arrivata in Belgio nel 1947, come migliaia di altri italiani alla ricerca di un lavoro: «Ai tempi, da un punto di vista culturale, la regione del Borinage era il deserto».
«La comunità italiana – racconta la signora Oscari – aveva uno stile tutto suo: cantava, rideva, mangiava. La differenza rispetto al Belgio profondo di quel periodo era evidente. Mentre gli italiani cuocevano la pasta con sofisticati sughi profumati, i belgi condivano i maccheroni con lo zucchero di canna… Il parmiggiano per loro aveva il sapore del vomito… Mi ricordo ancora che una famiglia appena arrivata dalla Penisola era convinta che il rumore di passi sui sampietrini della località dove abitavamo fosse quello dei cavalli. In realtà, erano i nostri vicini: ai tempi nelle campagne belghe non c’erano scarpe di cuoio, ma zoccoli di legno…».
«Non c’è dubbio – nota Marco Martiniello, sociologo dell’Università di Liegi –: gli italiani hanno vivacizzato il paesaggio culturale del Belgio. Ma il risultato finale è diverso dalla cultura popolare così come è intesa in Italia. È nata una nuova cultura belga, grazie all’influenza degli immigrati italiani». La lista degli artisti di origine italiana è lunga: i cantanti Salvatore Adamo, Rocco Granata, Frédéric François e Sandra Kim; l’amministratore di teatro Serge Rangoni; il compositore di jazz Bruno Castellucci; e il romanziere Girolamo Santocono. Il successo è stato soprattutto nel Belgio francofono, fosse solo perché la maggiore parte degli immigrati italiani si è fermata nel Sud del paese.
In un Belgio spesso uggioso e triste, che «ha per sempre il cuore a bassa marea» secondo Jacques Brel in Le plat pays, è facile immaginare che i belgi siano rimasti affascinati da «una cultura dell’apparenza», come la chiama la signora Oscari, di una comunità italiana forte negli anni 70 di 300mila persone. In Vallonia, ancora 50 anni fa, c’era in inverno l’abitudine nelle case belghe del noir quart d’heure, un quarto d’ora di silenzio a luce spenta durante il quale i membri di una famiglia, seduti nel tinello, riflettevano sugli avvenimenti della giornata appena trascorsa, tra sentimenti di malinconia e desiderio di risparmio sulla bolletta elettrica.
La musica ha certamente facilitato l’integrazione di migliaia di immigrati. La canzone Marina di Rocco Granata risale al 1959, ed è stata venduta a milioni di copie. «La tragedia di Marcinelle – spiega ancora Druitte – ha aperto gli occhi dei belgi sulla deplorabile situazione in cui vivevano ai tempi molti italiani, spesso costretti ad abitare nelle baracche usate subito dopo la guerra dai prigionieri tedeschi». Nel contempo, il matrimonio del futuro Re Alberto con Paola Ruffo di Calabria nel 1959, le immagini televisive dei giochi olimpici di Roma del 1960, e le vittorie ciclistiche di Eddy Merckx con la squadra italiana Faemino-Faema contribuivano a far conoscere l’Italia al Belgio profondo.
Non per questo l’integrazione italiana in Belgio può dirsi però pienamente riuscita, come rilevava in precedenza lo stesso Druitte. Anne Morelli, una sociologa dell’Université Libre de Bruxelles, è convinta che il successo dei Di Rupo e degli Adamo «sia l’albero che nasconda la foresta», una eccezione in un panorama dove l’esclusione sociale è spesso la regola in un paese, che oggi fa drammaticamente i conti con le difficolà di integrazione della sua comunità musulmana. Eppure, in un suo numero recente, il settimanale Le Vif-L’Express titolava in copertina: «Made in Italy – Comment les Italiens ont transformé notre pays». Quanti turchi in Germania, filippini in Italia, algerini in Francia, marocchini in Olanda possono contare su un tale riconoscimento?

(Questo articolo è stato pubblicato in prima battuta sul Sole/24 Ore del 31 luglio 2016 in occasione del settantesimo anniversario dell’accordo italo-belga del 23 giugno 1946 e del sessantesimo anniversario dell’incidente di Marcinelle dell’8 agosto 1956)

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  • rosanna |

    Sono arrivata in Belgio l’anno scorso .Ho potuto constatare che dopo un discreto tempo di conoscenza vi è stara un’accoglienza totale da parte dei colleghi locali.Le scuole,i locali che ho frequentato ,i negozi …pullulano di gente che comunque in qualche modo ha avuto contatti con la cultura italiana ed è ben felce di sciorinare qualche parola in italiano.Credo ci sia un forte desiderio di continuare ad apprendere nn solo la lingua ma quello che è lo stile vita italiano.Non so se sono stata particolarmente fortunata ma sul mio cammino ho incontrato persone che amano la cultura italiana e che guardano all’Italia non solo come paese del mare del sole e della buona cucina ma soprattutto come Paese ricci d’arte a 360 gradi .Ho notato quindi che se anche i primi italiani in Belgio sono arrivati per “fame” i figli di quegli individui hanno saputo costruirsi delle posizioni nn rimanendo ai margini della società.Voglio dire che se anche sono partiti con situazioni svantaggaite vi è stato un riscatto sociale che ha consentito loro di integrarsi.Sostengo pertanto che qualsiasi indivuduo che si presenti inun altro Paese con la tenacia di essere accettato e con la voglia di lavorare onostamente, in Belgio abbia la possibilità di poterlo fare.Non ho percepito dagli autoctoni sentimenti di opposizione soprattutto nei confronti degli italiani anzi li ho trovati ben disposti

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