Il gemellaggio tra città – L’esperienza di Wiltz nell’accogliere immigrati

L’arrivo di migliaia di immigrati dal Medio Oriente e dal Nord Africa sta mettendo a dura prova la coesione tra gli stati membri dell’Unione e la solidarietà nelle società nazionali. In Ungheria, la scelta del governo di usare la polizia per bloccare l’arrivo di immigrati provenienti dalla Serbia è approvata da molti cittadini. Romain SchneiderIn Germania alcune regioni sono in evidente difficoltà nell’accogliere i numerosissimi nuovi arrivati, tanto che si è appena dimesso Manfred Schmidt, il presidente dell’Ufficio federale per i rifugiati. In Polonia, il clima è tale che un giornale, la Gazeta Wyborcza, ha deciso di bloccare i commenti sul suo sito internet, per evitare sfoghi troppo violenti. Questa settimana mi è capitato di discutere dell’emergenza immigrazione con il ministro lussemburghese della Previdenza sociale Romain Schneider. Mi ha raccontato, tra le altre cose, che una decina di anni fa, da sindaco della cittadina di Wiltz, riesumò il vecchio (e spesso retorico) strumento del gemellaggio tra città per aiutare l’integrazione di un gruppo di stranieri proveniente dalla ex Jugoslavia e che aveva aumentato la popolazione locale del 5% in un colpo solo. Ma andiamo per ordine. Il Lussemburgo è un paese a sé nell’Unione Europea a 28, e non solo per la sua taglia. Secondo le ultime statistiche, il 46% della popolazione lussemburghese è straniero. I più numerosi sono i portoghesi, seguiti dai francesi e dagli italiani. Il paese, che conta 563mila abitanti, ha un numero incredibile di lavoratori transfrontalieri: abitano in Francia, Belgio o Germania, ma lavorano nel Granducato, dove si recano ogni giorno. In tutto sono 164mila, e il loro numero è raddoppiato negli ultimi 10 anni.  Il Lussemburgo è un paese nel quale durante una tipica giornata lavorativa la maggioranza delle persone è straniera. Addirittura, il 70% degli occupati è straniero.Nel 1999, la cittadina di Wiltz, ai tempi 4mila abitanti, fu chiamata ad accogliere 200 bosniaci, profughi della guerra nella ex Jugoslavia. “Non fu affatto facile – mi ha raccontato Schneider, un signore di 53 anni, simpatico e dal sorriso bonario -. La reazione della popolazione locale fu fredda. Tra le altre cose non capivano come mai gli uomini si riunissero fino a tardi la notte per strada… Non fa parte delle nostre abitudini. A un certo punto scoprimmo che costruivano o modificavano appartamenti e case senza alcun permesso. Abbiamo dovuto spiegare loro che in Lussemburgo era necessaria una particolare autorizzazione…”. Le differenze culturali, religiose, linguistiche saltavano agli occhi. L’integrazione di queste persone avvenne solo gradualmente. “Molto fece lo sport. Riuscimmo a integrare giovani e anziani grazie alle associazioni sportive. Nelle scuole poi organizzammo classi particolari, in alcuni casi chiedendo a persone che parlavano bosniaco di partecipare alle lezioni”. Ma lo strumento che ebbe maggiore successo fu l’idea di gemellare Wiltz con la città in Bosnia dalla quale provenivano la maggiore parte dei 200 immigrati: Zavidovici. “Abbiamo organizzato viaggi di cittadini nei due sensi pur di consentire alle due comunità di conoscersi meglio – mi ha spiegato il ministro -. Fu questa la chiave del successo. Perché l’integrazione funzioni, l’immigrato deve fare sforzi per comprendere le abitudini della popolazione locale, ma anche quest’ultima deve essere messa nelle condizioni di capire i suoi nuovi vicini di casa”. Lo sguardo corre inevitabilmente alle sfide attuali.

(Nella foto, il ministro della Previdenza sociale lussemburghese ed ex sindaco di Wiltz Romain Schneider, 53 anni. E’ un esponente del Partito operaio socialista lussemburghese)

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