La cogestione tedesca vista da vicina – 15/09/10

FRANCOFORTE – La nuova competitività tedesca fa sognare. È presa a modello dalla Banca centrale europea, guardata con invidia dalla Francia, discussa animatamente in Italia. Tutti ammirano la moderazione salariale che in questi anni ha permesso ai prodotti tedeschi di cavalcare l'onda della modernizzazione nei mercati emergenti. Quanti altri paesi possono dire di non avere avuto nei primi sei mesi di quest'anno neppure un'ora di sciopero? Lo sguardo corre al modello di relazioni industriali e in particolare alla cogestione.


La partecipazione dei lavoratori alle scelte strategiche di una società è considerata un anatema da alcuni; una benedizione per altri. Giuseppe Vita è convinto che i benefici siano più numerosi degli svantaggi: «È alla base di un circolo virtuoso tra responsabilità, trasparenza e meritocrazia». Nella sua lunga carriera professionale a cavallo tra Germania e Italia, Vita, 75 anni, ha vissuto in prima persona le relazioni industriali alla tedesca: prima alla Schering da presidente, poi alla Hugo Boss e alla Axel Springer di cui oggi dirige il consiglio di sorveglianza.
La cogestione, Mitbestimmung in tedesco, è nata ufficialmente nel primo dopoguerra. Prevede un sistema di corporate governance duale: il consiglio di gestione guida l'azienda; il consiglio di sorveglianza discute le strategie, controlla i dirigenti, approva il bilancio. Una legge del 1976 stabilisce che nelle aziende più grandi i lavoratori siano rappresentati da metà dei membri di un consiglio di sorveglianza. In quelle più piccole i dipendenti controllano un terzo delle poltrone. I membri restanti rappresentano invece gli azionisti.
«L'aspetto chiave della Mitbestimmung – spiega Vita – è l'informazione. I rappresentanti dei lavoratori sono tenuti informati della gestione della società, delle sue eventuali difficoltà o successi, dell'andamento dei conti. Sono stipendiati dall'azienda, hanno un proprio ufficio e una segreteria. Il libero accesso alle informazioni crea tra i dirigenti dell'impresa e i rappresentanti dei dipendenti una certa corresponsabilità. La società è in difficoltà? I sindacati agiranno di conseguenza e chiederanno aumenti moderati. La società va bene? Chiederanno aumenti salariali più generosi».
Dietro il successo della Germania in questi anni non c'è solo la moderazione salariale che ha permesso una diminuzione del costo del lavoro e quindi una maggiore competitività dei prodotti tedeschi. In realtà i salari sono sempre più legati alla produttività e ai risultati aziendali. La distribuzione delle azioni ai dipendenti è facilitata da vantaggi fiscali, mentre secondo la fondazione Hans-Böckler il totale delle aziende che non applicano alcun accordo collettivo è salito tra il 2003 e il 2009 dal 33 al 38 per cento.
«Sono convinto – prosegue Vita – che lo scambio d'informazioni sia un collante straordinario. Racconterò un aneddoto. Un giorno, nella società in cui lavoravo, fu deciso di dismettere tre divisioni su cinque. Non perché andassero male, ma perché era più giusto concentrarci sul nostro core business. Una delle divisioni in vendita apparteneva al nostro gruppo da oltre 80 anni. Può immaginare quindi la resistenza interna: c'era tra i dipendenti paura per il futuro, ma anche comprensivo dispiacere ad abbandonare la casa madre».
«I rappresentanti dei lavoratori, informati di tutto, capivano perfettamente la posizione dei manager, ma erano in ambasce dinanzi ai dipendenti. Di solito una riunione del consiglio di sorveglianza è preceduta la sera prima da una cena nella quale si mettono a fuoco gli ultimi dettagli. In quell'occasione i sindacalisti avvicinarono i manager e i rappresentanti degli azionisti e proposero una soluzione. Avrebbero votato contro la dismissione delle tre divisioni. Nel secondo voto in caso di parità, non si sarebbero opposti al casting vote, al voto decisivo del presidente».
In questo modo i rappresentanti dei lavoratori, informati dei fatti e convinti della bontà della strategia, erano riusciti a salvare la faccia nei confronti dei dipendenti. «In cambio però – ricorda ancora Vita – imposero all'azienda alcune condizioni: la salvaguardia dei posti di lavoro, la sicurezza degli investimenti, la permanenza a Berlino della sede operativa, rendendo inevitabilmente più difficile il compito dei dirigenti incaricati di vendere le divisioni».
È giusto che i lavoratori impongano queste scelte? «Entro certi limiti, sì – risponde Vita -. I manager non sono chiamati solo alla massimizzazione dei profitti. Devono anche fare gli interessi di tutti: degli azionisti, dei creditori e anche dei dipendenti. Se come dirigente cerco l'accordo dei lavoratori, le cose possono svolgersi facilmente. Se vado per la mia strada senza tenere conto dei dipendenti, rischio l'instabilità». Il rapporto d'intesa con i sindacati ha portato in Germania ad alcuni gravissimi scandali. Alla Volkswagen il management ha foraggiato i sindacalisti pur di avere il loro accordo sulle scelte più importanti.
Alla Siemens, i dirigenti hanno finanziato un piccolo sindacato amico pur di controbilanciare il peso in azienda dell'Ig Metall. «La cogestione – ammette Vita – ha potenzialmente questi rischi. Ma queste vicende sono aberrazioni della Mitbestimmung; derive minoritarie». Ciò detto, in Germania chi critica la cogestione sostiene che è utile soprattutto nei momenti di crisi perché permette di trovare soluzioni con una conflittualità minima; è d'impaccio nei momenti di crescita perché comporta troppa burocrazia.
È possibile, ma Vita crede che questi difetti siano il prezzo da pagare per soluzioni pragmatiche e condivise: ridurre il salario, delocalizzare, chiudere fabbriche diventano in queste circostanze decisioni più semplici da prendere. Peraltro, l'ex presidente di Schering è convinto che trasparenza e responsabilità siano anche la miscela necessaria per salvaguardare il seme della meritocrazia. «Anche nelle aziende tedesche esistono le cordate, ma la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell'azienda, anche al momento delle promozioni, è un fattore che aiuta a premiare il merito».
Mentre continua a tenere banco la difficile ristrutturazione di Fiat, c'è chi vorrebbe adottare la Mitbestimmung in Italia. È possibile? «Di certo non la si può improvvisare, né la si può trapiantare – risponde Vita con una punta di rammarico -. Temo vi siano mentalità diverse. La stessa corporate governance duale è stata importata in Italia senza la cogestione, con il risultato che è diventata un modo per moltiplicare le poltrone». L'ex presidente di Schering non ha quindi una ricetta in tasca, ma è convinto che la trasparenza sia un elemento decisivo per moderne relazioni industriali.
«Alla fine degli anni 60, Schering mi mandò in Italia a guidare la filiale locale. Il momento era difficile e la violenza politica era alle porte. I dipendenti temevano la chiusura delle nostre fabbriche, e mi ricordo che avevo a che fare con un consiglio di fabbrica molto politicizzato. Decisi di avere un atteggiamento tedesco: tenere informati i dipendenti, promettere solo soluzioni realizzabili, creare un atmosfera di fiducia reciproca. Funzionò. Aspetti cruciali furono l'onestà e la lealtà, da ambedue le parti: fanno miracoli».
B.R.